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La voce della poesia – Intervista a Andrea Inglese

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di Virginia Tonfoni

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«Se la letteratura, o un suo sembiante, esiste, scendere in quel caos, in quel prodigio, significa passare dall’altra parte dello specchio: vedere strazi e peripezie personali come un dramma, da fuori scena, con i personaggi che vanno e vengono nella zona luminosa», scrive Andrea Inglese nella prefazione di Commiato da Andromeda [di cui 404 ha già parlato qui, ndr], dove quest’ipotesi si trasforma in una pratica letteraria ricca di stile e sentimento. Classe 1967, professore di letteratura italiana alla Sorbonne di Parigi, autore di saggi di critica letteraria, blogger, ideatore insieme ad altri rappresentanti della “generazione TQ” della fondamentale rivista letteraria online Nazione Indiana, Andrea vive tra Parigi e l’Italia.

Ho incontrato il poeta a fine febbraio a Livorno, dove torna volentieri; nel 2011 ha vinto il Premio Ciampi di poesia con Commiato da Andromeda, poi pubblicato da Valigie Rosse. Qui ha conosciuto anche Sara Bianchi, cantante della formazione Sara dei Vetri, vincitrice della sezione musica.

Quello fu un momento significativo, Andrea: stasera con Sara dei Vetri presentate il frutto di quell’incontro. Come nasce questo spettacolo?

Storia a tre voci – il reading – nasce da un’idea di Sara Bianchi. L’editore mi disse che a Sara il libro era piaciuto molto. Dopo poco lei mi chiamò proponendomi di costruire uno spettacolo di lettura e musica. Ha tracciato un vero e proprio percorso attraverso il libro, selezionandone dei brani e ha poi inserito dei pezzi di Piero Ciampi, e altri del suo gruppo. La regia in questo senso, è sua. Per me è stato bello vedere come una cantante si avvicinasse al mio lavoro, come se ne appropriasse.

Commiato da Andromeda è la storia della dolorosissima fine di un amore decennale, il lamento di un uomo che si accorge di aver perso l’amata e l’amore stesso. Un libro che mischia verso e prosa poetica, un colpo al petto pieno di verità impronunciabili sull’amore e su un rapporto di coppia che s’incrina, una manciata di pagine alle quali è difficile rimanere insensibili. 

In effetti nel caso di questo libro ho avuto la sensazione che toccasse delle cerchie più ampie, arrivasse a persone e lettori molto diversi.

Inglese e la band sono ospiti del Teatrofficina Refugio e partecipano con lo spettacolo a Fame d’Aria, un festival sull’urgenza espressiva, ideato dal collettivo dello spazio livornese.

Siamo all’interno di un festival che parla delle emergenze espressive. Andrea, quando hai sentito per la prima volta l’urgenza di scrivere e cosa ne è nato?

Le prime cose che ricordo – con piacere – di aver scritto, sono diari. Avevo letto Il Giornalino di Giamburrasca. Da ragazzino ero un casinaro innocente, come lui. Ovviamente il tutto era ben lontano da un esperimento letterario. Più tardi invece, nella mia epoca punk, avvenne il contatto con i poeti maledetti, Rimbaud, Verlaine etc. Nella profonda provincia di Varese degli anni ’80, ci fu una specie di connubio perfetto tra la poesia vecchia di più di cento anni, che trovavo assolutamente attuale, e le tendenze distruttive che condividevo con altri pochi simili e iniziai a scrivere con più costanza. Se dovessi associare un’idea a quella di urgenza espressiva, sarebbe il movimento punk: io sono diventato altro, ma la poesia è a mio modo di vedere, è comunque un genere underground, una forma espressiva di rottura.

Ciampi chiedeva al merlo di cantargli una canzone, tu come vivi il rapporto con gli editori?

La scrittura poetica è una scrittura che non ha mercato rispetto ai canoni commerciali dell’editoria di oggi e anche in narrativa ciò che vende molto, le opere commerciali di rilievo, sono comunque appena il 10% della produzione editoriale. Nel caso della poesia esistono questi editori, generalmente dei personaggi stranissimi, un po’ mitomani, un po’ generosi, un po’ pazzi, un po’ generosi, un po’ appassionati, e sono in realtà coloro che permettono alla poesia di continuare a esistere nella forma libro, compiendo quindi un lavoro molto importante, visto che per uno scrittore un libro è comunque una mediazione. Nel mio caso, sono stato fortunato, ho i cassetti vuoti. In rete è un’altra cosa: lì faccio interventi di tipo culturale o politico. Nonostante Sono convinto che il ruolo delle riviste in linea sia stato determinante per far saltare la cappa delle riviste letterarie cartacee, in Italia molto gerarchizzate e istituzionalizzate, io non riesco a immaginare un progetto poetico forte pubblicato in linea. Certo che l’avvento dei blog e le riviste in rete ha avuto un’importanza fondamentale nel processo di democratizzazione della letteratura, da qui la loro proliferazione.

Rispetto alla tua poesia, credi che nel momento in cui la pronunci in pubblico, la parola poetica cambi di senso per te?

Assolutamente. Esistono due dimensioni di lettura: quella “silenziosa” del libro, nella quale si è liberi di entrare e di uscire dal testo a nostra discrezione e di costruirvi dei percorsi intimi, e l’altra, quella del testo poetico che arriva attraverso la voce del poeta stesso. Esistono, per esempio, molti festival di poesia: molte persone hanno voglia di partecipare alla lettura di poesia senza necessariamente esserne lettori. C’è una dimensione di cattura e di fascinazione che viaggia attraverso l’oralità; certo è molto importante creare degli spazi d’ascolto, situazioni in cui i lettori, o gli ascoltatori riescano a ricevere il messaggio poetico.

La poesia è un’emergenza espressiva?

Non direi mai “c’è l’emergenza poesia, bisogna salvare la poesia, etc”. La forza della poesia è il fatto di non essere voluta, non nasce dalla una necessità che si produca, poiché oggi la necessità è sempre legata al mercato, mentre nel caso della poesia, la marginalità è il suo punto di forza, è una pratica diversa rispetto a quelle su cui c’è invece maggiore investimento, tribolazione e in fondo, maggior tentativo di controllo. Per me non esiste un lamento per la poesia come genere.

Invece il Commiato, sì che nasce dall’urgenza di raccontare la fine di quell’amore…

Assolutamente, ma in generale, io penserei al perché dell’esistenza della poesia e dell’arte: la realtà non basta. Abbiamo bisogno sì di forme che rappresentino la realtà in modi altri da quelli che ci vengono quotidianamente proposti. Io non credo, per esempio, nella poesia civile che denuncia o che spinge al cambio, ma difendo la poesia come forma prepolitica che proponga nuove visioni, elaborando strategie di interpretazione della realtà diverse.



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