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Frammenti di una psicogeografia erotica: recensione a Commiato da Andromeda di Andrea Inglese

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di Claudia Crocco


Commiato da Andromeda è un libro tanto breve quanto intenso: sessantatré pagine di poesie e prose, che costituiscono il primo “capitolo compiuto” di un’opera più ampia che Andrea Inglese sta scrivendo, su Parigi. Commiato da Andromeda ha vinto il Premio Ciampi, ed è stato quindi pubblicato dalla casa editrice Valigie Rosse  di Livorno alla fine dello scorso anno.

Essere un poeta nel 2012, vivere a Parigi, scrivere un libro di poesie su una “voragine amorosa” che costituisce il primo capitolo di un’opera più ampia su Parigi: operazioni molto rischiose, perché si scontrano con il rischio di iperletterarietà, romanticismo, affettazione. Inglese non sfugge al problema, ma lo supera attraverso l’oggettivazione della sofferenza individuale ed il suo inserimento all’interno di un discorso più ampio sulle relazioni interpersonali contemporanee. Commiato da Andromeda è un libro che va oltre la necessità di autogiustificarsi: non è solo il resoconto sublimato di un dramma personale, né un’autoanalisi a scopo di terapia privata.

Se la letteratura, o un suo sembiante, esiste, scendere in quel caos, in quel prodigio, significa passare dall’altra parte dello specchio: vedere strazi e peripezie personali come un dramma, da fuori scena, con i personaggi che vanno e vengono nella zona luminosa.

La voragine amorosa esiste, è qualcosa che quasi tutti hanno sperimentato o sperimenteranno, e per questo motivo può ancora diventare il centro di un libro, concretizzarsi in versi ed in prose liriche che costruiscono una storia. La fine di una relazione è raccontata innanzitutto attraverso la messa in evidenza di particolari molto concreti, “dettagli osceni ed inquietanti”, detriti di una vita di coppia deflagrata lentamente. Alle immagini dell’erotismo sfilacciato si affiancano i ricordi dei primi incontri con Andromeda, a Parigi (“ in quella vita così forzatamente allegra dello studente addottorante italiano”); quindi quelli di un erotismo ancora non consapevole di se stesso, ritratti del desiderio sessuale infantile. Tutto contribuisce a creare un quadro, che è anche un paesaggio necessario per tracciare una “psicogeografia erotica” contemporanea; per descrivere il fallimento che non è soltanto di una storia, ma in qualche modo di tutte le storie, e delle immagini che usiamo per vivere, rappresentare e concepire le relazioni amorose.
Una chiave di lettura importante per Commiato da Andromeda è fornita dallo stesso Inglese, in un commento ad un estratto del libro pubblicato su Le parole e le cose: “Tutto il testo è una sorta di ininterrotto ekphrasis della Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo”. Il dipinto (olio su tela, una delle ultime opere dell’autore, del 1510 o 1513, ora conservato agli Uffizi) fa parte del Commiato tanto quanto le poesie e le prose liriche; non costituisce né un serbatoio di riferimenti e citazioni letterarie, né -come sottolinea Paolo Maccari nella versione ampliata della Nota al testo – , un mezzo di desacralizzazione del classico e di “volontarismo postmoderno”.
Il quadro è, innanzitutto, una parte dell’amore esaurito, un suo segno tangibile: nelle prime pagine si legge che una sua riproduzione era stata incollata alla parete della toilette della casa parigina dove vivevano Inglese e la sua compagna. Ma è anche un’immagine ed una prima razionalizzazione dell’amore, costruita a posteriori:

[…]quel quadro, che io avevo assorbito nel corso del tempo, come si assorbe un paesaggio dal ritaglio di una finestra, mi offriva una chiave globale e precisa per uscire dalla tenebra, e con chiaroveggenza trovare una diversa, più adeguata trama, per mettere in ordine la mia amara storia, la mia storia finita in pezzi.

Sviscerare il quadro, rappresentarne l’essenza con parole e versi, attraverso una formalizzazione diversa, è la strada scelta per l’oggettivazione del lutto e per svelare l’insensatezza del “vapore amoroso”. Al tempo stesso, il rapporto con l’immagine è dialettico e quasi produttore di una realtà.
Nella Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo compaiono molte figure, tanto che l’identificazione dei due protagonisti non è immediata: Andromeda è legata, seminuda, intrappolata; Perseo è sul dorso di un mostro al centro del lago (e del dipinto), che è a metà fra un drago, un serpente ed un capidoglio. Se inizialmente il “cetaceo draghiforme” è identificato con la malinconia di Andromaca, il suo lato oscuro, nella parte centrale del libro Inglese scrive che “il mostro sono io, il mostro di Cosimo, l’ego-centro”; poco dopo la creatura spaventosa è il fallito incontro, la distanza oscena che si è prodotta e che ha partorito Perseo ed Andromeda. Il mostro, dunque, è la velleità amorosa (“perché null’altro è l’amore se non questo prolungato malinteso, che simula un paesaggio definitivo, quando invece ogni amore è stagionale, sottoposto all’equilibrio instabile fra risorse oniriche e prove del reale, fra menzogne climatiche e freddi estremi o siccità impreviste.”), ma anche lo scandalo inevitabile della vita che continua (ed è la nuova vita “essendo gli amori/ incomprimibili, che attacca e devasta/ quella antica, si nutre e accresce/ d’altre latitudini, atlanti, climi/ mai visti, che assorbono della mente/ ogni atomo, residua forza”), e l’immagine, la maschera, che si è creata nel momento in cui è iniziata la distanza fra i due amanti.
In un commento sull’ estratto del libro diffuso online, Inglese ha scritto che “Il mio tema (epistemologico) è: quale tra tutte le versioni del mondo corrisponde a quanto è successo ‘davvero’ quando un amore va in pezzi.” Perseo e Andromeda sono maschere, autorappresentazioni di cui un poeta si è servito per rappresentare la fine di una storia d’amore: ma in qualche modo non sono meno reali di Andrea Inglese e della sua compagna. Oggi come cento anni fa, non solo la raffigurazione dell’amore in forme d’arte, ma anche la stessa disponibilità ad amare passa attraverso il ricorso ad immagini, ad autorappresentazioni inevitabili. Talvolta queste rispecchiano  le persone ed i loro stati emotivi con più autenticità di quanto non facciano i loro stessi gesti, mai realmente al riparo dalla finzione e dalla convenzione.
Il fulcro del libro può forse essere considerato la poesia finale. Subito prima, a precederla, ci sono un ultimo – lungo – pezzo in prosa ed un penultimo testo in versi, che costituisce una sorta di lungo adunaton, un elenco di ciò che avrebbe potuto far funzionare l’amore. Al suo interno ogni frase inizia con la congiunzione “se” ed esprime una possibilità nel passato, una condizione impossibile. Si crea così un effetto di climax che si ‘scioglie’ nell’ultima poesia, dove c’è un altro elenco: un’abbondanza di dettagli concreti, ancora una volta, ai quali Inglese sembra volersi appigliare per cercare “un credibile fondo”, un senso, un appiglio. La conclusione, tuttavia, è che “nulla/ è stato abbastanza reale”.

Commiato da Andromeda non spiega il lutto che si crea per la fine di un amore, ma parte da “quello che dell’amore resta”[1] e mette in discussione con lucidità ed immagini vivissime i modi di amare e di pensare l’amore ora, oggi, con questa geografia dei rapporti interpersonali.

Qui di seguito è trascritta la poesia finale del libro, già diffusa dall’autore in un commento al frammento pubblicato su Le parole e le cose.

Tutto questo sforzo non tiene fermo nulla:
appena formulati i desideri mutano, gli accordi
di lavoro deviano, hanno demolito
nel frattempo il muro di cinta, la casa
della vecchia smemorata è stata ridipinta
ampliata, invasa da altri, con i figli piccoli
già cresciuti, adolescenti, disoccupati, già morti.
Le buone cose previste
giungono da strade insolite, non più
riconoscibili, come frastuoni, fendenti.

Lo sapevi, affannato, sacramentando
tra una porta che t’incastra
e il bagagliaio, la sporta sul punto
di lacerarsi, la piccola che geme,
rovesciata sulla pancia, le forme molli
in pentola nere, carbonizzate,
lo sapevi che non bastava
partire una mezz’ora prima,
bisognava fare tutto, e da capo,
e meglio di ora, farlo molto prima,
non solo i biglietti, non solo le domande
al municipio, ma tutto il resto, per fare in modo,
magari,
che poi
che poi davvero
che come al solito
tutto non sparisca, come fosse niente,
non fosse stato, mai,
che qualcosa di troppo vago,
leggero da non
lasciare traccia: qui, nella mia testa,
dove cerco e ricerco,
frugando anche i fotogrammi bui,
quelli mai sviluppati o gli abbagli,
qui non rimane niente,
nonostante la grande serietà,
e i cristi mille volte masticati,
e il calcio contro la porta del frigo,
nonostante il profumo delle dalie bianche
nel nuovo vaso, nulla
è stato abbastanza reale
per fermarsi, per fare
un credibile fondo.

[1] A. Anedda, Quello che dell’amore resta, in Il catalogo della gioia, Roma, Donzelli, 2003



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